CASSAZIONE: UN'INTERESSANTE SENTENZA- giovedì 15 novembre 2007
La Cassazione conferma la
sentenza emessa a Roma
"La critica di un comportamento non può sconfinare nell'insulto"
Disse a un dipendente: "Non fai un c."
Capo condannato per ingiurie
ROMA - Un capo che si rivolge con stizza al dipendente usando
l'espressione "non fai un cacchio" può essere condannato per ingiuria. Lo rileva
la Cassazione, confermando la condanna inflitta dalla Corte d'Appello di Roma.
Un superiore si era rivolto ad un lavoratore dicendogli "mò m'hai rotto li c...,
io voglio sapè te che c.... ci stai a fà qua dentro, che nun fai un cacchio ed
altro".
L'imputato si era rivolto alla Suprema Corte contro il verdetto dei giudici del
merito, deducendo che "in considerazione del rapporto gerarchico esistente" tra
lui e il dipendente, "della circostanza che il fatto avvenne durante l'orario di
lavoro e che la persona offesa si era intromessa in colloquio di lavoro tra
altre persone, peraltro in ambiente di lavoro ricco di tensione, quale quello
della movimentazione di valori, la frase pronunciata non aveva valore di
ingiuria, trattandosi di espressione volgare e colorita utilizzata come forte
critica nei confronti di un comportamento stigmatizzabile del sottoposto".
La frase, secondo l'imputato, stava a significare che il dipendente "si trovava
fuori luogo rispetto al suo naturale posto di lavoro" e "alla luce
dell'evoluzione dei costumi e del particolare luogo di lavoro ove era dato udire
ogni tipo di sconcezza non era condivisibile l'opinione che il dipendente, quasi
rivestisse la figura di Cappuccetto rosso, si fosse sentito offeso nell'onore".
Per la quinta sezione penale della Cassazione, il ricorso è inammissibile: in
relazione al reato di ingiuria, osservano gli alti giudici, "affinchè una
doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica
- si legge nella sentenza n.42064 - ad un errato o colpevole comportamento, in
atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell'insulto a quest'ultimo,
occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del
comportamento stesso, chiariscano i connotati dell'errore, sottolineino
l'eventuale trasgressione realizzata". Se invece le frasi usate "sia pure
attraverso la censura di un comportamento - ribadiscono gli ermellini -
integrino disprezzo per l'autore del comportamento, o gli attribuiscano
inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, non può sostenersi che
esse, in quanto dirette alla condotta e non al
soggetto, non hanno
potenzialità ingiuriosa
Nel caso di specie, conclude la Suprema Corte, i giudici di merito "con
apprezzamento in fatto adeguatamente motivato e come tale incensurabile in
questa sede, ha accertato che la condotta ingiuriosa non era finalizzata a
stigmatizzare una specifica condotta censurabile del dipendente nell'esercizio
delle sue mansioni, bensì era motivata dalla 'stizza' per un comportamento
genericamente opportuno" del dipendente. Per questo "la concreta fattispecie
esula dalle ipotesi di critica legittima".
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